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venerdì, 19 Aprile 2024

INCONTRI RAVVICINATI: PEPPE VESSICCHIO

Napoletano, Peppe Vessicchio, classe 1956, musicista, compie i primi passi arrangiando le musiche per Eugenio Bennato, Beppino Di Capri, Gagliardi. Poi, inizia la collaborazione con Gino Paoli, con il quale scrive a due mani “Ti lascio una canzone”, “Cosa farò da grande”, “Coppi”.
In televisione appare a “Domenica in” e in molte altre trasmissioni.  Numerose sono a partire dal 1990 le sue presenze, in veste di direttore d’orchestra, sul palco del Teatro Ariston in occasione del Festival di San Remo, vincendo per tre volte il premio di migliore arrangiatore. Nell’edizione del 2000 viene premiato, quale migliore arrangiatore, dalla giuria presieduta da Luciano Pavarotti, e sempre al Festival di San remo vince come direttore d’orchestra 4 edizioni (nel 2000 dirigendo la canzone “Sentimento” degli Avion Travel, nel 2003 “Per dire di no” di Alexia, nel 2010 “Per tutte le volte che” di Valerio Scanu e nel 2011 con “Chiamami ancora amore” di Roberto Vecchioni).

Ha, inoltre, scritto “Sogno” per Andrea Bocelli, è stato arrangiatore anche per Elio e le storie tese, Zucchero, Ron, Biagio Antonacci, Ornella Vanoni, Ivana Spagna, Max Gazzé. Ha diretto in mondovisione l’orchestra che ha suonato in onore di John Lennon al Cremlino. Al teatro Smeraldo di Milano ha diretto “Mario Biondi and Duke Orkestra”, registrando nel corso di quella serata “I live you more”. Come direttore d’orchestra e come insegnante di musica ha preso parte al programma televisivo “Amici” condotto da Maria De Filippi.

– Cos’è la musica per lei, maestro?
“Direi che è la chiave per aprire innumerevoli porte… molto più di quanto si possa immaginare”.

-Ha mai giocato a calcio?
“Ho giocato a calcio, eccome: fin da ragazzo, fino da quando avevo 4 anni, ogni notte sognavo di giocare a calcio. Nella mia esperienza di dilettante, da ragazzo ho avuto con il calcio un rapporto molto simbiotico: avevo la sensazione che toccare la palla con i piedi, entrare a contatto con la sfera di cuoio, creando una sorta di legame, rapporto tra il corpo e la testa, riuscendo a imprimere, flettendomi, la traiettoria desiderata alla palla. Diciamo che c’è la stessa relazione nel calcio che intendo io tra il sottoscritto e lo strumento musicale. Poi, ho una specie di rigurgito, intorno ai 40 anni, e poi sono tornato a calpestare l’erba, prima di essere bloccato da un altro infortunio. Confesso che, superati i 60 anni, mi riprometterò ancora di tornare a correre in mutande dietro a quella sfera meravigliosa”.

-In che ruolo giocava?
“Facevo un ruolo molto particolare: il mediano. Un ruolo che oggi mi pare non esista più. Avanti e indietro per il campo,  non ero un mediano aggressivo, possedevo un buon tocco di palla, per cui la palla mi restava sempre vicina al corpo, e questo mi permetteva di giocare con una grande tranquillità. Però, era un ruolo, comunque, centrale, di fantasia, di creazione del gioco,  non di rottura”.

-La squadra del cuore, immaginiamo il Napoli, l’isolo, Diego Armando Maradona..
“Indubbiamente. I valori del proprio territorio vanno sostenuti; certo, mi piace conoscere il limite di questo gioco: la sportività. Per quanto incontri una squadra più forte, fino all’ultimo minuto, devi pensare tu di essere in grado di superarla, ma, quando ti ha superato, magari dovrebbe scattarti nei suoi riguardi anche un applauso. Una volta ho avuto la possibilità di essere allo stadio “San Paolo” e di vedere un Napoli di Maradona  surclassato da un Milan strepitoso. E, ricordo bene il forte applauso tributato da tutto il 2San paolo” alla squadra del Milan a fine partita. E, quella volta mi son reso conto che uno può tifare, è più che comprensibile, per la propria, ma davanti all’evidenza di un’organizzazione creata con arte e con sacrificio dall’avversario bisogna sapere applaudirlo”.

-Immaginiamo che lei si sia diplomato presso il Conservatorio “San Pietro a Majella” di Napoli…
“Guardi, quando ho deciso di occuparmi di musica in maniera più intensa – era alla fine delle scuole Medie -, mi affacciai al Conservatorio. In quegli anni, la classe di chitarra che allora volevo frequentare, aveva due problemi: 1) il numero esiguo di iscritti, 2)non rilasciava alcun diploma  o un attestato. Davanti a queste due condizioni, tutta la  mia famiglia, genitori e fratelli, dissero che era  poco sano affrontare il futuro senza un diploma. Per cui,  si ritenne opportuno farmi fare il Liceo. Ritenendo, poi, che esistono tanti posti nel mondo in cui si può coltivare bene la musica, collateralmente con gli altri iscritti, vuol dire che tu andrai al Conservatorio. All’epoca non esisteva la figura del tutore, ma io mi ci sono infilato assieme ad altri amici con un’arte tutta napoletana, facevamo gli uditori, facendo tesoro delle lezioni. Sotto questo punto di vista, mi  considero un “abusivo autorizzato”;  ma, così facendo, ho vissuto  lo studio della musica in una maniera molto più intensa forse di quelli che la frequentavano con la giusta cadenza e che l’apprendevano sui libri consigliati a lezione. Non avevo altre occasioni per imparare. Avevo amici molto bravi all’interno del Conservatorio – l’ho citato anche nel mio libro “La musica fa crescere i pomodori “ (pubblicato ai primi di febbraio 2017, 252 pagine edite da Rizzoli, e scritto con Angelo Carotenuto) -, i quali  mi facevano partecipe anche dei loro pensieri. Il Conservatorio è una “casa della musica”, e la cosa bella è proprio lo scambio osmotico che avviene tra tutti coloro che sono lì dentro, professori ed allievi. Allora, non c’era il diploma. C’era un attestato che io non conseguii perché non avrebbe aggiunto nulla a quello che cominciavo a fare: comporre per insiemi strumentali ed elaborare tracce melodiche già esistenti. Mi ritengo un “abusivo””.

-Il “San Pietro a Majella”, abbiamo scoperto durante il nostro viaggio, è uno dei più antichi Conservatori d’Italia: oggi riassume, raccoglie, racchiude l’eredità dei 4 che anticamente esistevano a Napoli…
“Del “San Pietro a Majella” esiste traccia non nel Settecento, ma ben prima, nel Quattrocento. Napoli e Ve hanno avuto un primato straordinario: per circa trecento anni hanno avuto un dominio assoluto in tutta Europa, mettendosi sullo stesso piano del primo Conservatorio europeo – quello di Parigi – sorto nel 1790. Possiamo, quindi, ben dire che le due regioni erano musicalmente  ben collegate tra loro. Napoli era sì una grande città, ma, in qualche modo era la capitale di un Regno molto più grande: era un luogo sacro della musica, un punto di convegno, di ritrovo  internazionale, una tappa culturale assolutamente d’obbligo per chi compiva viaggi in Italia, per apprendere per osmosi una serie di lezioni e contaminazioni musicali di proporzioni europee, non solo per gustare una peculiarità locale come lo era ed è ancora oggi la musica napoletana”.

-Un giudizio sui Conservatori italiani. Più di qualche nostro giovane appassionato di musica sta lasciando le nostre “case della musica” per iscriversi in altri d’Europa (Vienna, Berlino, etc.).
“A giudicare dalla qualità dei docenti dei miei tempi, credo che fino alla fine degli anni Cinquanta fossero più che idonei al loro scopo. Poi la burocrazia  macchinosa e l’incapacità di adeguare gradualmente il linguaggio che evolve, in tutte le direzioni, quella popolare compresa, hanno creato un vuoto del quale paghiamo ancora oggi le conseguenze. In questo, le riforme messe in atto non hanno aiutato. Anzi, sono figlie della stessa confusione, e finiscono per generarne altra ancora. In alcuni conservatori stranieri hanno recuperato l’uso dei “partimenti”, strumento didattico della scuola napoletana del Settecento per l’insegnamento della composizione e che a quei tempi fu adottato in tutta Europa. In Italia, che mi risulti, ad oggi, nessuno degli istituti lo cita nei suoi programmi. Se qualcuno oltre confine ci ricorda come si coniuga fulgido passato e imprescindibile presente, cosa posso risponderle? Che si vada dove questo avviene. Forse quando le coscienze saranno pronte, si reclamerà il ruolo  guida che per secoli abbiamo avuto in questa materia”.
 
– Qual è lo strumento che, secondo lei, “racconta” meglio la musica?
“La musica è un universo immenso, con una quantità di elementi che la storia intera delle forme, degli stili e degli strumenti non riuscirà mai a soddisfare in pieno. Le variabili geo-culturali e le epoche che si sommano ci offrono un panorama nel quale un solo strumento non è in grado di delinearne il profilo”. 

– Qual è la canzone che ha composto e nella quale si identifica, si riconosce maggiormente?
“Quella che che ancora non ho scritto. Affido questo ruolo ad ogni mia composizione nascente”.

– Cos’è che nella vita le fa venire la pelle d’oca, la emoziona di più?
“La verità. Nella sofferenza e nella gioia”.

– Artisti si nasce o si diventa?
” Si nasce con un proprio talento. Se riusciamo a individuarlo e a coltivarlo possiamo diventare artisti e scienziati di quella particolare propensione. Infatti, davanti ad un bravo cuoco, è possibile sentir dire “è un artista nel far da mangiare”. Se l’intuizione viene coltivata si completa anche della parte scientifica che merita… e la frittata è fatta”.
 
– Qual è il sogno nel cassetto di Peppe Vessicchio?
“Il mio sogno è creare musica che serva la pace degli armonici nei loro legami e la pace degli individui che la ascoltano”.

-In lei ha vinto di più il cuore o la ragione?
“Il cuore sta in vantaggio… e spera sempre che la ragione pareggi per avere nuovi stimoli a sorpassarla. Il cuore propone e la mente ne insegue le tracce e le certifica. Mai farla passare in vantaggio. Lei agisce solo in base a dati relativi ad esperienze pregresse. La vita è in continuo divenire e questo tipo di calcolo non ci darebbe certezze… a meno che il cuore non confermi, tornando in vantaggio”.

– Qual è stato il suo “gol” più bello – professionalmente parlando – e l'”autorete” più clamorosa?
“Aver incontrato mia moglie e aver creato una famiglia. L’autogol? Quando ho rischiato di perdere questo bene. Può capitare a tutti di restare imbrigliati negli schemi che la vita frenetica di questo mondo propone in virtù del segno del successo. l’importante è accorgersene e non aver paura di andare per un tratto contro corrente”.
 
-Rammarici, rimpianti?
“Ho il rammarico di non aver potuto condividere alcuni momenti con i miei genitori. Nessun rimpianto: è servito tutto”.

– Non avesse fatto il direttore d’orchestra, il compositore di musica, in cos’altro le sarebbe piaciuto cimentarsi nella vita?
“Come già detto, ho sognato per lungo tempo di fare il calciatore..”..

-Nella mia Verona, città d’arte, si dice: “Chi ha voce, canti in Arena!” Vale ancora questo detto nel mondo della musica?
“I detti popolari sono sempre validi. Ad ognuno il suo compito. Un tempo l’Arena era il luogo per misurare le proprie doti. Oggi i palcoscenici sono ovunque e le competenze molto differenziate… ma il detto vale sempre”.
 
-Di che cosa non può fare a meno nella vita di tutti i giorni?
“Non posso far a meno di dedicare un pensiero ai miei amici. Ne ho tanti. Percepisco il loro affetto e provo a ricambiare loro qualcosa, tutti i giorni. Anche solo con un pensiero, un messaggino”.

-Lei, maestro, nel 1982, ha recitato anche in un film, “Gigi il bullo” del 1982…
“Nessun rimpianto… ho imparato tante cose. Un ulteriore palcoscenico, col  quale la vita ha voluto che mi misurassi”.

-Qual è il cantante, per il quale ha arrangiato le musiche, e che le ha dato maggior soddisfazione? E, come direttore d’orchestra, quale podio le ha portato più fortuna, maggiore successo?
“Ho un legame speciale con Gino Paoli. Non solo ammirazione, ma anche legame familiare. Anche con Sanremo… la guida dell’orchestra durante i festival mi ha regalato dei momenti indimenticabili”.

– Il suo peggior difetto e il suo miglior pregio?
“Il pregio credo sia nel mascherare il difetto: non saper rinunciare ad un momento conviviale… pur generando magari il ritardo ad un appuntamento. Davvero disdicevole… ma a volte davvero sano”.

– Lei ama il cibo (i pomodori in particolare, ha scritto un libro a riguardo): qual è il suo piatto preferito?
“Mi piacciono i primi piatti. Pasta, riso, cereali in genere, preparati con passione e attenzione scientifica”.

-Federico Fellini diceva che il genio è anche malinconico. E, se sì, come si scaccia la tristezza?
“Malinconia non è tristezza. Amo la malinconia, ma non mi ritengo un genio. Mozart era un genio: in trent’anni ha scritto un quantitativo di capolavori che ad altri non basterebbero un intero secolo”.

-Dietro le note sta l’infinito: così Riccardo Muti…
“A me interessa quello che sta intorno alle note. L’ambiente che le accoglie, i cuori e le menti che l’attendono. C’è ancora molto da capire di quello che al momento accade. Questo mi fa sentire vivo”.

-La musica, il bel canto ci innalzano all’infinito. D’accordo?
“I sentimenti sicuramente ci innalzano”.

-Abbiamo sostenuto un “viaggio” anche nei più noti e prestigiosi teatri d’opera lirica italiani: lei è più un verdiano, un pucciniano o un rossiniano?
“Se delle opere li rappresenteranno in maniera adeguata e veritiera senz’altro concorreranno all’azione.

-Abbiamo sostenuto, di recente, un “viaggio” anche nei più noti, prestigiosi teatri d’opera lirica italiani: è più un verdiano, un pucciniano o un rossiniano?
“Bella domanda. Dipende dagli stati d’animo. La giocosità e l’ironia vanno sicuramente a braccetto con Rossini. Il gusto del tragico trova soddisfazione in Verdi, mentre con Puccini c’è l’appagamento della nostalgia”.

– Cos’è la bellezza per lei?
“La bellezza è un concetto universale legato alle proporzioni. La natura ci propone bellezze creaturali che l’uomo cerca di riprodurre con i linguaggi che gli competono. Quando ci riesce, non è possibile non riconoscerla. Mi vengono in mente “la Gioconda” di Leonardo, la k40 di Mozart e a “La passione secondo Matteo” di J. S. Bach”.

4 aprile 2017, Andrea Nocini per www.pianeta-calcio.it

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